LELLO VOCE

Voce non è un nome d'arte, non so perchè quando lessi per la prima volta una tua poesia mi ero immaginato fosse cosi'. Mi ero immaginato che quella Voce, acuta e incisiva, fosse l'esplicito richiamo ad una tradizione vocale che della poesia è la base e la genesi. Ma forse è davvero così, perchè Lello Voce, soprattutto poeta, è una presenza luminosa nella cultura italiana ed europea, uno stile, una forza non consuete. Quando, come, perchè hai iniziato a scrivere in versi?

Mi verrebbe da rispondere: cosa volete che potessi fare, se non lo Spoken Word, col cognome che mi ritrovavo… ma non sarebbe la verità. Pur leggendo poesia sin da quando ho imparato a mettere insieme le prime sillabe,in realtà la poesia è stato solo l'ultimo dei miei mestieri. Da giovane (18-20 anni) ero appassionatissimo di Storia moderna, ho anche fatto le mie brave pubblicazioni, insomma immaginavo per me un futuro tra archivi e biblioteche. Poi mio padre è morto improvvisamente e io mi sono ritrovato, dall'oggi al domani, a fare il piccolo imprenditore, a portare avanti l'azienda di famiglia, di cui in realtà non sapevo un bel nulla e di cui mi fregava (da bravo figlio di papà) anche meno. E' durata per circa 6 anni,ed è stata terribile, durissima:guadagnare dei soldi facendo ‘profitti' è un'attività faticosissima, spesso brutale, violenta verso se stessi e soprattutto verso gli altri, a volte insensatamente compulsiva e frenetica. Poi, semi-asfissiato (ma come fanno gli imprenditori a vivere facendo gli imprenditori? Devono essere tutti tipi assai singolari!) ho mollato tutto (perdendo sin quasi all'ultimo quattrino), anche perché mi ero trovato da un po' di tempo un'altra occupazione, dal mio punto di vista molto più interessante: avevo iniziato a fare il ‘junkie'. Il junkie è un mestiere (già, proprio così, un ‘mestiere') che ho fatto per circa 10 anni, con grande dedizione, lasciandoci il poco di denaro che mi era rimasto, a cui ripenso spesso, con lo stesso affetto stupefatto e terrorizzato con cui un naufrago pensa al suo naufragio e alla pelle riportata comunque a casa .Oggi ne sono distante, ma, tornassi indietro, rifarei tutto. Era un grande sbaglio, ma uno sbaglio sensato, profondo, coraggioso, almeno dal mio punto di vista. E alla fine, ma solo dopo un buon decennio, su questa cosa ci ho scritto un romanzo, che volendo potete leggervi qui ( http://www.lellovoce.it/rubrique.php3?id_rubrique=12 ) La poesia è arrivata in seguito, mi è esplosa nelle vene come se fosse un fiotto di vita, avevo 28 anni quando ho capito che l'avrei fatto per sempre, e che quello era molto meglio che essere un junkie, meglio per me e forse anche per gli altri intorno a me. Ma voglio subito precisare una cosa: in realtà, sin dall'inizio, non mi sono mai limitato a ‘scrivere versi', li ho sempre detti ad alta voce, li ho immaginati perché avessero un corpo vocale, perché abitassero nei miei polmoni e mi passeggiassero su è giù per glottide e diaframma. Immaginare la poesia contemporanea come una serie di segni scritti, immobili, è una cosa che mi è sempre costata un notevole sforzo. La poesia è materialità: vocale e di senso. Abita il tempo e lo spazio. E' un'azione, oltre che un pensiero e un linguaggio. E ciò riguarda precisamente la sua ‘forma'vocale.

Note dolenti. Qual'è la situazione della poesia, in Italia diciamo. Girando per le librerie i reparti dedicati alla poesia sembrano piuttosto risicati...

La poesia, specie quella scritta, non è mai stato un genere di largo consumo. Quando lo era, era poesia ad alta voce, fatta per la comunità. Ma questo è un altro discorso, che parla di altri tempi, e forse del futuro, certo non del presente. Oggi, paradossalmente, se non altro a causa dell'alto tasso di scolarizzazione, si legge comunque moltissima poesia, molta più che un quarantennio, o un secolo fa. Il problema è piuttosto che solo una parte infinitesima di essa è poesia contemporanea e che comunque la situazione italiana ha aspetti che sarebbe lusinghiero definire ‘terzomondisti'. Ciò dipende da una molteplicità di fattori di cui sarebbe lungo parlare, certo è che – in una società in cui si vende di tutto, anche quanto di più inutile si possa immaginare – è abbastanza inquietante che non si riesca a vendere poesia. Ci sono decine di migliaia di persone che scrivono versi in Italia, perché nemmeno loro comprano poesia? Sarà mica un brutale problema di branding? Dipende dal fatto che gli autori contemporanei continuano a scrivere poesia per un ‘pubblico' che non esiste più? Che scrivono libri che nemmeno loro stessi acquisterebbero?O invece è dovuto alla diseducazione scolastica che in circa una decina d'anni riesce a vaccinare contro la poesia pure i più motivati degli allievi, avvelenati a colpi di Carducci, D'Annunzio e Quasimodo, o stroncati da overdosi petrarchesche, con contorno montiano a tradimento? Non so. Quello che so è che in questo momento l'Italia è capace di produrre molti tra i migliori giovani poeti europei, che, al contrario dei loro colleghi stranieri - i quali possono contare su un'attenzione pubblica e sociale di ben altro livello -, sono costretti ad annaspare nella incuria generale di una nazione che poi però corre in massa a osannare le ‘star', i Nobbbel (quelli con 3 b), i poeti da salotto televisivo, divorando la loro immagine, la superfice patinata delle loro opere, con la stessa gastronomica bulimia che riserva agli attori holliwoodiani, o ai protagonisti del Grande Fratello. D'altra parte l'Italia è oggi il paese delle megamostre ultra-affollate, dei megafestival letterari da decine di migliaia di presenze e delle città d'arte pronte a trasformarsi in musei a cielo aperto, che però è in realtà assolutamente disinteressato a tutto quanto è cultura, arte, se non nel suo aspetto di immediato ritorno economico, o brutalmente e televisivamente spettacolare. Il paese in cui milioni di persone leggono solo quella determinata decina di autori (tra cui i mediocri e gli asini fatti e finiti certo non mancano), mentre centinaia di ottimi altri sono conosciuti solo da un pugno di esperti e aficionados: sembra una raffinata forma di auto-censura, ma tant'è.. Ed è barbarie, certo, ma bisognerà che la poesia si attrezzi per fare i conti con questo contesto, pena la sua ulteriore marginalizzazione. Non dico, sia chiaro, che questa situazione è anche colpa dei poeti, né che bisogna arrendersi allo status quo, mi limito a suggerire che dovrà essere la poesia a modificarsi, a ‘mutare', perché certo non sarà la storia a procedere a passo di gambero. E bisognerò che si faccia presto… Per esempio iniziando a produrre Cd di poesia, invece delle solite plaquette, accettando di sfidare “l'ascolto distratto”, tuffandosi a corpo morto nel futuro, rinnovandone, fiato a fiato, la nostalgia per l'utopia e la capacità di immaginarsi diversa.

Come potrebbe incidere in questo contesto storico, politico, culturale la poesia? E qual'è l'incidenza reale che ha?

Al di là del fatto che la poesia possa avere un'utilità pratica, che possa materialmente incidere rispetto ai contesti sociali e politici, essa ha comunque il dovere di essere coinvolta nel suo presente. Questo è prima di tutto un problema ‘formale', stilistico. Poi etico. Solo in ultima istanza ciò riguarda i contenuti delle poesie che componiamo. Detto questo, è evidente che non c'è spazio per mosche cocchiere, chi ne dubitasse dia un'occhiata a certe recenti e feroci polemiche letterarie e alle reazioni ultracorporative che esse hanno innescato, ne avrà la migliore dimostrazione di quanto sia marginale oggi il ruolo dei poeti e, più in generale, dei letterati. Ciò non significa che non ci sia da fare per la poesia e per la letteratura più in generale. Anzi ce n'è moltissimo. Il nuovo poeta che immagino sa che la comunicazione e il linguaggio sono le basi della società globalizzata e che la loro vocalizzazione, il loro insediarsi materiale in un corpo, in uno spazio e in un tempo presenti e comuni hanno grande valore, se non altro come testimonianza dell'esistenza, magari residuale, di una comunità interpretante, attenta, sospettosa, attiva, conscia dell'effimero dell'arte nei confronti delle macrostruttura, ma anche del suo valore nella strutturazione degli immaginari, che per molti versi, nelle società dello spettacolo, a loro volta, soli, possono influenzare e modificare le macrostrutture, nel loro trasformarsi in scelte, stili di vita, comunicazione, consumo, ecc., poiché, oggi più che mai, la prassi inizia e si fonda nell'immaginario. Tutto ciò, ma non è questa la sede, credo, per affrontare un problema di così vasta portata, ha, o può avere, come sua conseguenza lo sviluppo di un'epica 'nuova', orfana di valori certi, ma affamata d'utopia, un'epica di ricerca, nel significato letterale del termine: un'epica, se si vuole, della ricerca. Questo poeta che sto immaginando ha bisogno, però, per assolvere a questo suo compito, di una voce nuova, che non sia più sede solo d'emozione, ma che si faccia corpo della ragione, sua espressione, che perimetri una geometria delle emozioni, delle sensazioni, dei sentimenti, una voce emozionata, ma non emozionale, un sentimento del tempo non sentimentale, un ossimoro di soggetto e oggetto, una parola vocale e consonante, soggettiva e politica, che definisca i confini di una ragione a due dimensioni, che cammini a due e a quattro zampe, il progetto di una vocalità complessa che, nel dire, rifletta sul suo dire, ne verifichi i silenzi, scomponga e distorca i rapporti tra fiato e significato, tra occhio e polmone. In questa società della comunicazione controllata, moltiplicata e insieme interdetta, la poesia può e deve essere la sede della comunicazione del desiderio della ragione, il risultato di una cosciente politica della comunicazione e la sede della comunicazione delle politiche e delle micro-politiche delle collettività, come dei singoli. La voce di questo poeta inaugura e perimetra un luogo mobile, dinamico, imprevedibile, incontrollabile, di libertà del comunicare e del comprendere, luogo della fondazione del pensiero nella voce e della voce del pensiero.

Poetry slam. Capitolo a sè. Il ritorno alla tradizione orale, una gara, un fenomeno di costume o cos'altro è?

Il Poetry slam è tutto questo ed anche di più. Certamente è conferma definitiva di come e quanto la poesia sia tornata ad abitare il corpo e la voce del poeta. Ma è anche una via nuova che sta permettendo a tanti giovani poeti di farsi conoscere in tutta Italia. Ed è il segnale del ritorno del poeta nella società: il poeta che fa Slam rimette la propria identità nelle mani di una comunità, una comunità che lo giudica, certo, ma che dialoga con lui e attesta la necessità dell'esistenza del poeta e della stessa poesia. Lo Slam ci ricorda che i poeti passano, la poesia e le comunità si trasformano e restano. Io personalmente credo che lo Slam sia anche un gesto fortemente polemico contro tutti gli egotismi narcisistici e la voglia di successo più o meno mondano-televisivo di buona parte dei letterati italioti. E' un meccanismo democratico e orizzontale, che prova a ricostruire un dialogo vero tra società e poesia, laddove altri si accontentano di vestire la palandrana della moda del momento, o la papalina ammuffita di questa o quella lobby di potere, editoriale o accademico che sia.

Poesia parlata, raccontata, recitata. E musica. Fatta da musicista. Il tutto all'interno di un contesto live. Com'è di norma l'impatto con la gente che viene sotto il palco? E nello specifico del tuo set, mutuando il termine dal djing,che tipo di relazione nasce e si sviluppa con le persone che vengono ad ascoltarti?

Il live è il momento più importante di tutto il mio lavoro. E' allora che ci si mette in gioco veramente, che si rischia tutto ciò che c'è da rischiare. Nel live non ci sono trucchi possibili. Il pubblico lo sa: ed è estremamente attento e generoso. E stupefatto: nel riconoscersi ‘pubblico', da che era solo un gruppo di lettori riuniti in una sala. E tra le due cose c'è una differenza enorme. Quando (e se) arrivano gli applausi, alla fine della performance, penso sempre che non stanno applaudendo me, i miei musicisti(Frank Nemola, Paolo Fresu, Michael Gross, Luigi Cinque, Luca Sanzò), le videoscenografie di Giacomo Verde, ma che stanno soprattutto applaudendo se stessi, per aver ritrovato il gusto e la voglia di dare attenzione alla poesia. E questo mi rende enormemente orgoglioso. Non c'entra l'io di Lello, c'entra un meccanismo collettivo che abbiamo messo in moto tutti insieme, che abbiamo sviluppato in comune, sino a farcene, in fondo, tutti protagonisti allo stesso livello.

Cross-over. Incrociamo, oltre ai destini, anche stili e percorsi artistici. Parola, musica, grafica. Quali sono le tue esperienze in questo senso?

La mia è poesia di cross-over. Musica, parola e immagini:di questo sono fatte le mie poesie. Non riuscirei nemmeno ad immaginarle senza. E intendo proprio dire che ogni mia poesia è – costitutivamente – anche musica e immagini e che dunque io non sono l'unico autore delle mie poesie. Il lavoro del letterato è tradizionalmente solitario: io sono patologicamente socievole, lavorare da solo mi angoscia. Fare questo tipo di poesia mi permette di condividere, di collaborare, di competere con chi suona con me, per giungere a un senso collettivo, globale. Spesso, dopo aver ascoltato i miei dischi, mi dicono:- bello! ma a volte la musica distrae dalle parole… Ma il problema è proprio quello, deve avvenire così! La musica non è il sottofondo delle mie poesie, ne è parte integrante e i miei testi sono costruiti apposta per fare i conti con l'ascolto ‘distratto', hanno un andamento a spirale, un po' mantrico. Dunque va bene così, distraetevi pure ad ascoltare la musica, poi tornate alle parole, in assoluta libertà. Il mio spoken word ambisce ad essere molto più che un po' di parole con musiche di sottofondo, è una mutazione genetica, che fonde indissolubilmente tutti i livelli artistici e percettivi, abolendo radicalmente ogni gerarchia, formale e di senso. Per questo, alla fine, ho deciso che Fast Blood non poteva essere un libro-disco (mi sembrava un prodotto un po' ipocrita, tentare di tenere due piedi nella medesima scarpa), ma che doveva essere un disco: punto e basta…

Il sito lellovoce.it gira sotto il gestionale Spip, un sistema opensource. Ci da l'occasione per toccare l'importante piano su cui si è innescato, da anni, con alti e bassi, tutto il dibattito su diritto d'autore, no-copyright, copyleft e le recenti creative commons. Come si inserisce Lello Voce all'interno dei ragionamenti andanti?

Sono profondamente disgustato dall'atteggiamento che la gran parte degli intellettuali e degli artisti (musicisti in testa) ha nei confronti del problema delle leggi sul diritto d'autore. Il copyright, così come esso viene inteso e applicato oggi in Occidente e in Italia, è… un crimine contro l'umanità, contro l'intelligenza, contro la libertà. In realtà, nonostante la terribilissima pirateria, le star sono comunque ultramiliardarie, dunque, quale sarebbe il problema? Quello che Dalla, Morandi o Pavarotti, tutti mega-soci SIAE, guadagnino qualche migliaio di euro in meno, sui milioni che già incassano, lucrando, come gli permette di fare la normativa, anche sul mio lavoro poverello, sulle royalties di tanti artisti bravissimi e sconosciuti? Dovrei esserne scandalizzato, o commosso? Non ci riesco, mi scandalizza di più il fatto che a milioni di persone sia impedito di accedere – per ragioni economiche, una volta si sarebbe detto di classe – a dei prodotti che io considero merci essenziali, di prima necessità. Il meccanismo è poi tanto distorto e incivile, che, ad applicarlo coerentemente, si rischiano gli scandali di certe normative europee che presto imporranno il pagamento dei diritti d'autore anche sui libri che si prendono in prestito in biblioteca. Una democrazia nella quale per leggere un libro in biblioteca occorre pagare, è ancora una democrazia? Tutto questo riguarda o meno la libertà di espressione? Pericle , nell'antica Atene, stabilì una tassa, il theorikòn, che serviva a permettere anche ai più poveri di potersi recare a teatro. Da questo punto di vista, le società borghesi e romantiche, col loro mito dell'originalità e il corollario conseguente del concetto (mostruoso) di ‘proprietà intellettuale' sono, a confronto dell'Atene periclea, delle tribù paleolitiche… Il sapere non è una merce, è un diritto, e questo vale anche per l'arte. Mi rendo conto che, per ragioni di brutale sopravvivenza, non sempre è possibile produrre in copyleft, ma se un artista povero e certo non notissimo, quale io sono, può permettersi il lusso di rischiare a produrre un CD copyleft, mi chiedo cosa impedisca di fare lo stesso ad ultranoti alfieri della canzone e della musica alternativa. La via mostrata dai 99Posse è percorribile da tutti, anzi, più si è noti e più è facile. Rischiare cosa, poi, mi domando: quando mai il masterizzatore del PC di qualcuno di noi potrà competere con la forza distributiva ed editoriale delle major e davvero crediamo che basti vietare, per impedire che fenomeni assolutamente ‘naturali' accadano? Quando si ha fame, se non si hanno soldi, si ruba del cibo: che c'è di male in questo? L'unica alternativa possibile al furto, mi pare quella di fare in modo che non ci siano affamati. Voi ne conoscete altre? Mi viene un magone incredibile quando prendo tra le mani certi CD i cui testi sono zeppi di bellissime parole alternative e che dietro, tanto quanto quelli di Mina e di Dalla, hanno stampato il pistolotto che avverte che il Cd è difeso da uno speciale sistema che lo protegge da duplicazioni, ecc… Caparezza , ottimo artista, è solo l'ultimo esempio di una lista lunghissima. Mi domando se certi signori, almeno nel loro privato, dopo aver partecipato alle eroiche marce contro la ‘pirateria'che uccide l'arte, si vergognano di tutto ciò. Ma credo di no. La situazione è tanto grave che magari ci credono davvero a quello che dicono, sembra loro naturale che sia più giusto proteggere i loro profitti che i diritti della gente ad accedere all'arte e al sapere: vantaggi delle società e delle culture del Libero Mercato, cosa volete farci…

Oltre quelle di cui abbiamo parlato quali sono le attività che Lello Voce porta avanti?

Lello Voce scrive sui giornali, vive con una compagna che ama molto e insieme a lei cresce un giovanotto di dieci anni, che, visto come butta al papà intellettuale, da grande ha deciso di fare il cuoco, poi insegna italiano e storia a gruppi di fantastici allievi (tutti più o meno matti almeno quanto lui) in un Liceo Artistico di Treviso. Fa tutta la politica che riesce a fare e prova continuamente a smascherare il lato oscuro della luna. Ma questo è l'aspetto più paranoide di lui. E poi, last but – certainly – not least, Lello Voce sta ancora cercando di capire cosa è veramente accaduto in Piazza Alimonia il 20 di luglio di qualche anno fa e –soprattutto – perché. E, statene certi, non ha alcuna intenzione di smettere.