CLÌO

In genere funziona che all'inizio una persona si trovi a scrivere "larga ed estesa" a proposito del proprio percorso artistico e/o autoriale. Viene poi una specie di senso-di-sintesi in cui si cerca di decifrare, con pochi e precisi termini, immagini che possano rappresentarci, presentare in qualche modo il nostro lavoro, concedendo magari qualche informazione, qualche indizio indiretto. Sapendo che una attenzione attenta andrà a svelare. In caso contrario, sarà semplicemente una immagine tra le altre, innocua. Nel caso di Clìo, giovane illustratrice romagnola, siamo già a questo punto. Sul suo sito infatti è presente un "about me" che è già una enumerazione di annotazioni. Ecco, Clìo, se sei d'accordo, inizierei proprio da qui, dal cercare di dare corpo ai termini per significativi.

Penso che descrivere se stessi sia uno dei tentativi più difficili, in quanto si è in un qualche modo costretti ad assumere, e di conseguenza a convalidare, un unico punto di vista, prendendo posizione rispetto ad una identità che, fondamentalmente, mai si è potuto concepire da una prospettiva "esterna". Ci si pone come nella condizione di dover stabilire una sorta di compromesso tra quello che ci sembra di sapere rispetto a noi stessi, quello che riteniamo altri debbano sapere, e quello che noi stessi riteniamo di sapere in merito a quello che gli altri pensano di noi...affinché qualcuno, per di più indiscriminatamente, possa essere nella condizione di farsi un'idea in merito. Siamo nell'ambito delle grosse pretese...ed io oltre a temere fortemente la sindrome dell'oggettività, non sono ancora laureata in comunicazione d'impresa.

La questione è che al di fuori dell'interazione, dei rapporti diretti tra persone, dunque dei processi di conoscenza naturali, le presentazioni sintetiche (e con sintetiche intendo i cosiddetti curriculum, le bio, i profili ecc...) sono divenute forme quantomeno necessarie; tanto che in rete ad esempio, tali condizioni fungono da riferimento ed assumono valore fondante, strutturando sul nascere la tipologia dei rapporti tra referenti e fruitori.

Per quanto mi riguarda, purtroppo, non possiedo grandi capacità di sintesi linguistica. Tendo fondamentalmente alla prosa e credo in maniera pressoché cieca nel dialogo. Anzi, per essere più precisa, credo che tutto ciò che faccio, acquisti valore nel mezzo, nello spazio che intercorre tra me ed il contesto in cui vivo, in cui lavoro, in cui studio; tra me e le persone con cui interagisco. Non mi riesce dunque mai del tutto facile descrivere ciò che sono, districandomi entro i vincoli dell'efficacia comunicativa, o meglio non mi appare quasi mai scontato stabilire con sicurezza il punto di partenza.

Possiedo una reale difficoltà nell'identificare quale sia il mio ruolo, la mia "funzione", e sono praticamente braccata dal senso di parzialità.. Alle volte è una condizione stimolante, mentre in altri casi diventa un' ossessione; perdo l'equilibrio e sprofondo nel tautologico.

Paragono l' "about me" ad una bozza; un accumulo di riferimenti per dare struttura al progetto.

Inizialmente, quando stesi i primi appunti per la mappa del sito, ignorai completamente l'ipotesi di scrivere di me. Decisi di cavarmela mantenendo uno spazio news, dove in alternativa, mi dissi, avrei potuto raccontare qualcosa, o integrare il materiale visivo con appunti etc... Poi in diverse occasioni mi è stata richiesta la stesura di una biografia, dunque ho pensato che sarebbe stato utile inserire un apposito spazio nel sito.

Insomma del resto è giustificabile... ogni volta che penso alla forma del "cenno biografico" mi viene in mente quando nella mia prima post-adolescenza facevo le spedizioni in libreria guidata da uno slancio di panico, rispetto al dilemma: "cosa merda posso fare della mia vita" (ai quei tempi l'equivalente di "dove mi iscrivo dopo il diploma..."), per leggermi i profili biografici di certi autori... dunque tizio ha studiato matematica, ma è passato alla storia come artista... caio studiava gli stormi e poi ha scoperto il dna... in questo periodo dell'esistenza si tende a cercare i propri punti di riferimento sempre troppo in alto... sui retro copertina di pubblicazioni sempre troppo fighe....

Si ripropose così la necessità di stabilire che cosa avrebbe avuto senso scrivere...dunque che tono assumere, quale impostazione, e tra l'altro, a chi avevo intenzione di rivolgermi parlando di me.

Optai per una soluzione del tutto poco funzionale rispetto ai canoni, e giunsi al "riguardo a me" di cui tu parli.

Una pagina da block-notes che sta vicino al telefono. Un post-it, tanto per farsi un'idea; perfetto per il monitor di chiunque.

Prefigurati di aprire il cassetto della mia scrivania e trovare una serie di oggetti. Un'idea di traccia, nessuna presa di posizione formale. Mi piace pensare di essere una persona che potresti beccare, con cui condividere musica, film, o un pezzo di sacher, e con cui fare una chiacchierata. Non molte pretese, ma è la condizione ideale dalla quale partire per creare buoni progetti.

Per quanto riguarda i rapidographer, realmente non ne posso fare a meno. Sono le uniche penne che utilizzo per disegnare, mentre il minipiner è l'esatto equivalente del machete che Robinson Crusoe utilizzava per spaccare cocchi (ne avrà utilizzato uno, credo). Un cimelio indispensabile per salvaguardare sé stessi, dalla propria medesima indolenza in cucina...

Direi invece che i pipponi di delirio scritto costituiscano la parte fondante di tutto il mio lavoro. Durante il primo anno di accademia iniziai a frequentare le lezioni di Parini e della Fabbri; il primo insegna teoria della percezione promuovendo un metodo di ricerca teorica che va oltre la Gestalt, e che pone le proprie basi in merito agli studi svolti in ambito cibernetico dalla Scuola Operativa di Ceccato, attiva sul finire degli anni'60. La Fabbri invece insegna storia dell'arte avvalendosi di un approccio interpretativo che presuppone il metodo di analisi promosso dal primo.

Iniziai a lavorare con loro durante le lezioni, ed il mio primo esame consistette in un tentativo di traduzione. L'idea era quella di trasporre alcune osservazioni in merito ai meccanismi attenzionali, mediante l'implicazione di esempi e schemi più chiari ed accessibili agli studenti di un istituto superiore qualunque. Fu in questa occasione che iniziai ad interessarmi del linguaggio, e della necessità, nonché del diritto condivisi, di possedere strumenti di studio accessibili. Focalizzai il mio interesse in merito al rapporto tra forme della rappresentazione e linguaggio; incominciai una lunga e sterminata ricerca a livello di glossario e buttai giù parecchie pagine di appunti in merito. Realmente è carta poco chiara... ma ci sto lavorando per la tesi.

Ciò che più motivava le mie intenzioni inizialmente, era la necessità di possedere strumenti che andassero oltre le singole discipline. Il problema era: "ok, frequento l'accademia - versus - dunque non posso ignorare l'ipotesi di formarmi uno straccio di coscienza in merito a cosa comporti fare arte". Cosa comportava, tanto più, cosa comporta, realmente il fatto di porsi nella condizione di fare arte. In un qualche modo. Qualsiasi esso sia.

La mia prima ipotesi fu che il tentativo di fare arte dovesse corrispondere propriamente all'attività dell'elaborare in termini di metafora, intervenendo attraverso la messa in discussione di principi considerati e/o considerabili pressoché universali - l'idea stessa di tempo o di spazio; le dinamiche che sottintendono i processi di legittimazione, di rappresentazione etc.- sfruttando il lavoro di ricerche differenti. Chi intende produrre arte, non può, a mio inutile parere, ignorare il resto... la biochimica, le neuro-scienze, i processi sociali, la storia dell'arte stessa, le modalità attraverso il quale si utilizzano i mezzi di comunicazione, l'influsso degli stereotipi conoscitivi, ciò che è stato. A senso costruire mantenendo in relazione plausibile diversi sistemi sintattici (per portarla sul piano linguistico). Mi interessavano, e tuttora ci sto lavorando, le differenze tra le diverse modalità di elaborazione di un testo.
"Arte" è una sintesi nominale che funge da riferimento per una miriade di sistemi di rappresentazione. Sistemi che comportano codici interpretativi differenti. Molti illustratori, o fumettisti, penso a Clowes ad esempio, sono notoriamente considerati artisti; viceversa molti artisti "da galleria" lavorano sfruttando gli standard dell'illustrazione, e con questo intendo il discorso sui processi narrativi e mi viene in mente un collettivo che adoro, quelli della Royal Art Lodge.

Insomma il terreno è talmente vasto che occorre a mio parere impegnarsi tenacemente nel tentativo di costruire qualcosa che vada oltre il criterio logoro dell'espressione, dell'evocazione fine a sé stessa. Come è bene fare attenzione a considerarsi filosofi una volta in possesso della laurea in filosofia, occorre tanto più fare attenzione a considerarsi artisti una volta oltrepassato il varco dell'accademia. Paragono il senso comune ad un collare che rallenta lo scorrere del sangue giusto in corrispondenza della giugulare. Capisci quando parlo di difficoltà, misto imbarazzo, misto senso di inadeguatezza, nel tentare di definire con sicurezza, in una manciata di righe, il proprio ruolo, in relazione alle esperienze svolte, agli studi, ai riconoscimenti (?!?)

Elaborare in termini di metafora sarebbe come dire: sviluppare narrazione visiva utilizzando alfabeti fatti di visioni piuttosto che di semplici segni codificati. Il linguaggio non mastica lettere ma immagini. Ogni immagine investiga e produce una sua storia compiuta. Ogni storia compiuta viene agganciata attraverso espedienti narrativi alla storia successiva, dando vita vita in questo modo ad una comunicazione complessa.

Gran parte delle opere umane, di qualsivoglia genere o natura, stimolano nella mente di chi le fruisce un'ipotesi narrativa. Il lavoro sulla narrazione, dunque la messa in discussione di questo pressoché automatico sintomo del dover in un qualche modo raccontare, del descrivere, che segue alla percezione, diviene una tappa pressoché obbligata. Una lettera alfabetica, in quanto segno, non risulta a mio parere tanto più semplice rispetto allo stereotipo figurativo lineare che utilizzo nel rappresentare un cervello, o un'antenna trasmittente etc.
Non c'è semplicità o complessità, solo una serie di meccanismi cognitivi, ed i criteri di valutazione come "semplice" o "complesso", sono invenzioni della cultura attraverso il quale gli individui mantengono il controllo l'uno sull'altro. È molto più semplice definire un bambino "iperattivo" e ingozzarlo di psicofarmaci, anziché concepire un determinato comportamento come un modo differente di relazionarsi e tentare di integrare tale stato senza agire con la repressione coatta, legittimando un'unica modalità di approccio.

Ma non è questo il caso di polemizzare in merito a certe tematiche.

La lettera alfabetica può essere considerata rappresentativa, tanto quanto un qualsiasi tracciato lineare; dipende dall'approccio, dall'atteggiamento che assumiamo nell'osservarla. Dipende dal punto di vista ma in entrambi i casi, l'utilizzo della traccia funge da rimando. Entrambi i segni nel momento in cui vengono fruiti possono introdurre l'osservatore alla "complessità", nel senso che l'interpretazione del segno può sussistere a diversi livelli.

Mi viene in mente Nash. Hai presente le scene di "A Beautiful Mind"?
In effetti, penso sia plausibile considerare non tanto l'immagine, che è lo stadio ultimo, quanto un potenziale, che è quello percettivo, e che consiste nella capacità consapevole di porre in relazione, di costituire in termini di valore secondo principi di rapporto, paradigmi, consueti o meno. L'utilizzo consapevole di questo potenziale permette ad ognuno di noi di costruire metafore, sistemi possibili, dimensioni plausibili. La legittimità della metafora si costituisce nello spazio vissuto, nel contesto esperienziale entro cui agiscono creatore e fruitore. Dunque in relazione a ciò, il valore non sta tanto nel prodotto di questa azione, che di per sé rappresenta, bensì nell'azione stessa, nelle modalità di relazione attraverso il quale l'individuo costituisce il prodotto. Il linguaggio stesso, diviene metafora dell'atto, se come atto intendiamo la capacità, il potenziale cognitivo di intendere in relazione suono e segno.

L'equivoco a mio parere, sta nel fatto che si tende ad attribuire potere alle immagini, scavalcando a piedi pari chi le concepisce in quanto tali, chi le legittima, chi le riconosce in quanto veicolo, dunque l'osservatore, il fruitore. Chi concepisce l'immagine, chi rappresenta, si adopera nell'istituire una condizione di metafora ( attraverso qualsivoglia mezzo); ma è chi fruisce, dunque a ridefinire in termini di valore, ad identificare, a significare.

È l'osservatore, a concepire la rappresentazione secondo un paradigma cronologico o meno, a distinguere e a strutturare in termini di ordine o disordine, di semplice o complesso etc.
In tal senso, tanto la temporalità o la complessità, non sono principi dati, quanto applicati.
Il paradigma del reale, il concetto stesso di visione, si ergono in relazione alla percezione individuale.
Poi alcuni criteri di percezione, o di rappresentazione, o ancora di narrazione, possono essere legittimati a discapito di altri, divenire convenzionali, ed essere considerati consueti, ma quello dell' oggettività dell'immagine, è un palazzo con fondamenta di cartone. Non occorre dunque a mio parere, negare a priori la convenzione, bensì perseverare nella messa in discussione di un simile parametro, non tanto attraverso una modalità di rappresentazione che diviene traslazione visiva di "storie", quanto inducendo chi fruisce allo sforzo percettivo; voglio dire, su quale complessità ha senso riflettere, sul groviglio visivo, o sulla nostra tendenza di osservatori a concepire l'immagine come-un-groviglio visivo...?

Interdisciplinarità, contesti circoscritti e/o allargati e relazioni tra saperi, sguardi, strumenti, ritagli, collage, veicoli, significati, significanti. Il Segno grafico ed illustrativo si unisce al segno verbale, nella sua traduzione scritta, in un primo passaggio: Phanta Mag. Complessità, ovvero: stratificazione in orizzontale. Nato come elaborato per il tuo primo esame di grafica all'Accademia, oggi come prosegue? Su che percorsi? Con quali parole?

Rido molto nel parlare di Phanta...cioè rido pensando agli antefatti che ne hanno fatto un oggetto di cui ora posso parlare mantenendo la terza persona. Phanta Mag è un paradosso imperfetto, nel senso che può essere paragonata ad una rivista, ma tradisce ogni canone in merito dato che potrebbe rientrare con maggior semplicità nell'insiemino con le presine realizzate dalle pensionate durante l'ora d'aria all'ospizio, che altrove. Per di più, essendo fondamentalmente un manufatto, per quanto riguarda i criteri di realizzazione, raggira malamente la produzione in serie, visto che che dir si voglia, c'è sempre una pagina ritagliata in maniera leggermente diversa, che se ci penso impazzisco, visto il senso di perizia di cui sono palesemente vittima etc.

Rido molto per ovvi motivi, ed eventi che oramai tra i miei compari son leggenda...

Quando presentai l'elaborato all'esame, le docenti interpretarono l'oggetto conferendogli una natura del tutto dissimile rispetto a quella di cui io ipotizzavo la plausibilità. Il mio fine era realizzare una rivista. Davvero ci credevo con una forza estrema, ma il fatto di essere completamente ignara di tutti i crismi che la reale produzione di una rivista, in primis l'ipotesi della serialità, comportano, apparii alla commissione come investita di un'aura quantomeno fluorescente di ingenuità-misto-scarso senso del reale.

Per rendere l'idea, il numero 1 di Phanta, consiste (-va) in 70 pagine circa di immagini a colori, disegni, collage, foto appiccicate, realizzato a mano, che se fotocopiato avrebbe comunque perso quel 40% schietto di genuinità e valore dato dalla consistenza dei materiali. Probabilmente, pensai, avrei dovuto negare i presupposti, ma esordii con un "sì lo so, non è molto fattibile, e nel caso lo fosse necessiterebbe di grossi costi di produzione", o qualcosa sui generis.
Come dire, ok seppellitemi di sterco, tanto sono "coprofaga"...
In effetti, assunto il termine rivista nell'introdurre il lavoro, e considerata una minima percentuale di legno a marchio di fabbrica di ogni emerito esperto e/o insegnante di grafica e/o grafico che si rispetti, avrebbero potuto abbandonarmi oltre la valanga di entusiasmo cre-attivo e buoni propositi, di cui mi facevo sanguinolento baluardo. Ma funzionò diversamente; evitarono di propinarmi manfrine sui criteri di vendibilità, serialità, pubblico,range di riferimento ecc...ecc...; promossero il progetto a pieni voti, e Phanta fiorì in seno alla polisemia.

Allo stesso modo però, mi costrinsi alla consapevolezza. Le mie aspettative mancavano qualsiasi possibile legame con una realtà editoriale tout-court, eppure Phanta, così come appariva, era tutto ciò che avevo da intendere.

Phanta non rappresentava in effetti un prototipo di rivista, quanto un prototipo di lavoro in senso stretto, in cui la gratificazione maturata nelle fasi stesse di realizzazione, superava qualsiasi ipotesi di legittimazione da "esterni". Tanto che in questo caso la mia soddisfazione ed il giudizio delle entità "esperte" coinvolte in questa circostanza "d'accademia" andarono a nozze.

Giunsi alla conclusione che non avrebbe avuto alcun valore escludere il progetto, senza contare il fatto che in quel periodo rappresentava il culmine del mio adoperarmi in, dato che tutto quello che producevo doveva avere qualcosa a che fare con Phanta. Occorreva semplicemente, a quel punto, variare la prospettiva ed ingegnarsi di persona nel promuovere il proprio lavoro secondo modalità differenti.
Autoproduzione, ed un filo di gas. Per non snaturare il prodotto, per non concedere la priorità a fattori che si sviluppano parallelamente ai processi stessi di elaborazione e realizzazione dell'idea, e perché fondamentalmente il lavoro di produzione non poteva che coinvolgere direttamente me, considerata la mia condizione di labilità. Sostengo questo, non tanto per ego-mania, quanto perché non mi interessava affermare attraverso Phanta uno standard preciso. Sotto tutti i punti di vista (contenuto, packaging, approccio etc..), Phanta consisteva in quanto variante.
L'incapacità di stabilire uno standard, dunque lo scarto di un qualsiasi accordo formale in merito alla realizzazione dell'oggetto, avrebbe creato tra più figure coinvolte, e a lungo andare, il delirio. Ciò che mi interessava fondamentalmente era dare forma, attraverso contenuti eterogenei o meno ad un veicolo autonomo, che riflettesse al momento le mie stesse esigenze espressive e comunicative. Per compiere questo c'è (c'era) la necessità di mantenere pieno controllo su ogni fase del lavoro. Inizialmente, la mia intenzione, era quella di realizzare una sorta di veicolo per promuovere sia il mio lavoro, che il lavoro di altre persone coinvolte a livelli differenti in ambito visivo, letterario, musicale, tipo citazione, (da Focault alla mia compagna di classe che spacca con la fotografia, per capirci). Phanta#1, fu tutto questo. Peccato che una prospettiva del genere, avrebbe rappresentato per me un lavoro immane, in riferimento a molti aspetti. Lavorando da sola, e abbracciando una iniziativa simile, sarei riuscita a realizzare per lo meno un numero all'anno, considerando i costi di produzione, l'opera di ricerca materiale, l'impostazione, e la stessa realizzazione manuale.
Ed io avevo prima di tutto la necessità personale di esplicitare materialmente una mia esigenza produttiva, che come già ho scritto, consiste nella realizzazione e messa in atto dell'idea, e che quantomeno,tale esigenza, si risolvesse entro un tempo limitato dall'entusiasmo. Spero di esser stata chiara insomma.

Ad oggi, Phanta rappresenta per me un oggetto di sintesi; è un mezzo attraverso il quale diffondere il mio lavoro in maniera quanto più diretta (....una sorta di brochure...); nasce e si costituisce secondo un divenire sempre dissimile fase per fase, tanto che ogni numero è totalmente diverso dall'altro. Per quando riguarda l'approccio e le modalità di realizzazione dunque, potrebbe essere tranquillamente considerata una fanzine, eppure continuo a sostenere l'ipotesi per cui non ha senso definire Phanta altro che un contenitore (termine molto comodo da qualche tempo, per indicare una quantità innumerevole di progetti (virtuali e non) sperimentali che dal concetto di rivista traggono spunto ponendo però in discussione mezzo di realizzazione, contenitore-supporto e contenuto). Per quanto riguarda una qualsiasi ipotesi di stile o impostazione, qualche esperto nel campo, probabilmente, o anche il mio insegnante di graphic design, sosterrebbero la tendenza in questo caso a riproporre i meccanismi dell'immagine scoordinata...alla Mambo per intenderci... e ritengo che da un punto di vista critico possa essere un criterio di valore plausibile, attraverso il quale definire formalmente, "da fuori" il progetto. Fatto sta che allo stesso modo non riesco a porre nemmeno questo tipo di criterio come strettamente fondante. La differenza penso sia molto semplice: esiste un atteggiamento di ricerca consapevole che implica una riflessione sul modo di fare, ed esiste la ricerca che è tale in quanto insita nel fare, ma che non include una riflessione consapevole in merito allo strumento e al suo utilizzo .
Nel primo caso, vi è alla base l'intenzione di sovvertire, elaborare o mettere in discussione certe modalità, certi criteri, sistemi, o codici di rappresentazione ecc... Ed è l'atteggiamento che personalmente cerco di assumere (malamente, merda, e mai troppo radicalmente) per quanto riguarda il mio studio in rapporto al disegno, all'atto. Nel secondo caso invece, certi paradigmi legati alla composizione, all'utilizzo di precisi materiali, dunque più propriamente all'effetto visivo, e al piacere creativo legato all'utilizzo della carta, del collage etc. hanno il pieno sopravvento. Se quando disegno, mi preoccupo di capire in che direzione, o da che presupposto io abbia intenzione di partire, beh, con Phanta per ora è il contrario, mi rilasso, mi diverto, cazzeggio e gioco moltissimo.

"...modalità differenti...autoproduzione, ed un filo di gas...". Autoproduzione è un termine che ha, a mio avviso, un suono magico. Catalizzatore, per quanto mi riguarda. Autoproduzione e autoproduzioni, quindi. Parliamo ancora di modalità, ma anche di socializzazione di strumenti e saperi, progettazione collettiva oppure individuale inserita comunque all'interno di un piano collettivo. Spesso, e malamente, si tende ad associare autoproduzione con bassa qualità; in realtà non è affatto così. Ho conosciuto il tuo lavoro attraverso una ottima pubblicazione sotterranea come InguineMAH!gazine. E so, perché da lì in avanti ho iniziato a seguire con costanza le tue attività, che sei inserita attivamente nel variegato tessuto del diy (Do It Yourself) italiano ed internazionale, che prevede un peso specifico musicale elevato ma anche l'importante presenza delle arti visive, giusto per fare un esempio (ma potremmo allargare il bacino di osservazione alla letteratura, alla poesia, ecc. ecc..). Tralasciando ora l'aspetto specifico della musica, su cui vorrei tornare più avanti, che cosa significa per te oggi, anno di grazia 2006 quasi 2007, sviluppare progettualità ed iniziative diy? Cosa significa costruire in prima persona i propri percorsi di comunicazione visiva e arte? Quali sono le tue esperienze dirette e le tue riflessioni in questo senso?

Azzarderei l'ipotesi di un eventuale inserimento entro un contesto interregionale ma non internazionale... Sviluppare progettualità ed iniziative d.i.y, significa a mio parere, porsi radicalmente nell'atteggiamento di produrre con il fine di prendere coscienza di se stessi e dei rapporti che ci legano l'uno con l'altro, in quanto individui sociali inseriti nel medesimo contesto d'azione. Occorre essere tenaci nel senso che non esiste eventualità di delega...il fatto di porsi nel tentativo di costruire il proprio percorso implica un principio di coerenza rispetto a sé stessi, ed una riflessione lucida in merito ai propri limiti. È una presa di posizione per un certo verso liberatoria, per un altro verso difficile, nel senso che una volta consapevoli che il potenziale sta nelle nostre mani non ci sono scuse. Peccato che la carne tenda all'inerzia ed il morbo della pigrizia rende le ossa di piombo. D.I.Y è azione e reazione nella consapevolezza, ma più che altro alla consapevolezza, di essere in quanto parte di un rapporto, ed è una scelta che coinvolge l'esistenza in maniera pressoché totale. Per quanto mi riguarda significa mantenersi, come individuo, in constante rapporto con la realtà, in modo da determinare una condizione "cre-attiva". In secondo luogo, a livello cognitivo, essere attivi significa per me essere coscienti del fatto che qualsivoglia ipotesi di senso riflette un punto di vista, e che ogni punto di vista riflette un modo di concepire gli eventi; dunque non esiste una validità assoluta, e questo dovrebbe indurci a comprendere gli altri, dunque ad evolvere verso gli altri. Una tale coscienza ci permette di andare oltre l'idea di una realtà oggettiva e di metterci in gioco attivamente.

Nell'introduzione al sito scrissi che "D.I.Y è l'unica soluzione per non perdersi". E con questo intendevo far riferimento all'ipotesi per cui alle volte si tende a sopperire dinnanzi alle proprie aspettative, delegando altri di fornirci una soluzione di valore, per poi limitarci a vivere secondo le prospettive altrui, e producendo secondo un punto di vista ipostatizzato e standard. Tutto il sistema, se si riflette un momento, poggia su di una simile struttura di rapporto, e mi viene in mente come metafora l'idea stessa di struttura, scovata tempo fa tra le pagine di un testo di Munari, per la quale è logico, se intendo costruire un solido complesso, utilizzare un materiale molto fragile per controllare meglio la robustezza dell'insieme. All'istituto d'arte ti insegnano a vedere nella scelta del gallerista, dell'editore o del critico, la soluzione; ho vissuto e visto scene patetiche nel corso di questi anni; menti frustrate nel tentativo di realizzare se stesse entro parametri di compromessi inutili. Il tentativo di affermare o riconfermare uno standard visivo o produttivo ideale, che il più delle volte non ci appartiene a livello espressivo, comunicativo o metodologico, conduce ad una condizione di passività. Il lavoro, la produzione artistica deve a mio parere fondarsi sulla ricerca, e la ricerca è sperimentazione attiva, per questo se un prodotto traduce in maniera coerente l'idea di chi la crea, quel prodotto ha comunque valore se concepito in relazione al contesto in cui è nato. Il principio di coerenza a sua volta è da stabilirsi in relazione alle condizioni poste da chi produce.

Ho accennato, nella domanda precedente, alla musica. Dal sito ho visto che hai curato la grafica per un paio di autoproduzioni musicali italiane, La Quiete ed Endless Inertia. La domanda, a questo punto, è semplice e, allo stesso tempo, duplice: qual'è il tuo rapporto con un tipo di comunicazione visiva come quella applicata a questo ambito, nello specifico? Quali sono i tuoi ascolti (di norma, quando lavori, alla sera, quando piove, quando passeggi, quando leggi, quando dormi)?

Per quanto riguarda i miei ascolti (e per quanto sia bieco effettuare una scrematura), ci sono, come naturale, alcuni pezzi o dischi che hanno favorito un cambiamento nel corso della mia esistenza. Primo fra tutti Aenima dei Tool; gli At the drive in; The shape of punk to come dei Refused; Venom dei Breach ed i Frammenti, oltre al vecchio Ritual de lo Habitual, degli ahimè estinti nello spirito, Jane's Addiction.
Questo per quanto riguarda il pathos della mia adolescenza.
Fugazi, sempreverdi quando lavoro, assieme a Radio Tre, che intrattiene i miei pomeriggi, e che subisco anche un po' direi, visto che nei periodi di stress acuto, quando sono alla scrivania, mantengo in sottofondo l'intera programmazione (compresi gli speciali con i concerti dal vivo di musica barocca); non so perché, ma nel mio rapporto con questa emittente, io sono la parte passiva... Kill me tomorrow e Men's Recovery project in giro a piedi; Slint ed Electrelane quando sta per far buio; Pelican quando dormo, le Tigre al mattino nel tragitto casa-stazione. Malady, Neil Perry, Manifesto jukebox in treno. Poi l'ultimo dei la Quiete, in repeat parecchie volte.

Parlare di comunicazione visiva per me significa fare riferimento ad un sistema strettamente finalizzato, in cui tutti siamo posti da chi comunica, nella condizione di poter vedere all'unisono le medesime apparenze, secondo una struttura linguistica o visiva premeditata a pennello in base alla eventuale natura di un ipotetico fruitore. La comunicazione visiva, per essere tale deve istituirsi su principi di funzionalità. Quella in cui mi sono trovata a è una condizione leggermente differente, in cui chi produce immagini può sfruttare una coscienza visiva autonoma rispetto alle aspettative, per cui la produzione musicale e quella visuale annessa rappresentano due percorsi paralleli.

Per quanto riguarda il lavoro degli Endless, ad esempio, si è dapprima discusso sul valore del loro lavoro, su quelli che erano stati i loro riferimenti rispetto al senso stesso dei pezzi. "Octiobr'Novembre", che è il titolo dell'album, è una citazione in merito all'errore storico, per cui a scuola studiamo la cosiddetta "Rivoluzione di ottobre", facendo riferimento ad un calendario che non ci appartiene, in quanto ottobre in Russia corrispondeva al nostro novembre. Da qui decisi di lavorare sull'idea di tempo inteso secondo diversi aspetti: il tempo dell'apprendimento, il tempo fisiologico, il tempo della comprensione ecc... e nacquero le tavole.

Mentre con i la Quiete non ho avuto nessun altro riferimento se non il mio stare ad ascoltare i pezzi in cuffia, e cercare nella mia mente l'immagine che meglio potesse rappresentare il mio senso del suono in quei minuti di ascolto. Di fondamentale importanza in entrambi i casi è stata la "fruizione live" in concerto.

Hai ripreso a novembre le lezioni in accademia. Scrivi: "Il mio cazzeggio è monitorato dall'ansia. E inizio a pensare che il noumeno di Kant, corrisponda propriamente all'ansia... Rimedio all'assenteismo di questi mesi elencando fatti belli che accaduti e nuove incombenti produzioni." Nel frattempo, continua il tuo stage lavorativo? Quello della scuola è un tasto sempre particolare su cui focalizzare l'attenzione, soprattutto quando si parla di scuole d'arte e design e comunicazione italiane. Spesso e volentieri si sentono critiche da parte degli studenti (e soprattutto degli ex studenti), spesso pare non ci siano alternative. Quali sono le tue considerazioni a questo proposito? Come sono stati questi anni spesi in accademia? Che prospettive? Quale rapporto col (parallelo/successivo) mercato del lavoro, considerate le tue prime esperienze tra stage e Agenzie?

Il mio lavoro nello studio di Palumbo è determinato dalla presenza o meno di mansioni da svolgere, ed ora è sospeso. Spero riprenda perché il tempo trascorso in studio è stimolante a priori, anche per quanto riguarda la mia breve esperienza a Recreo. Per il resto, non condivido l'atteggiamento di chi da novembre a giugno non fa che lamentarsi dell'organizzazione scarsa che contraddistingue il sistema accademico. Penso che l'accademia statale italiana sia un sistema fallimentare. Io frequento un'accademia privata, e la situazione è migliore solo rispetto al fatto che gli studenti possono avere un contatto diretto e stretto con gli insegnanti, che sono assunti per merito e che possono lavorare a stretto contatto con i ragazzi. E questo, nel mio caso, è l'unico e fondamentale motivo per cui posso considerare questo sistema migliore. Nell'accademia privata c'è la possibilità di perdere meno tempo. Chiunque può cazzeggiare, ma chi è interessato a portare avanti un proprio progetto ha il 70% in più delle possibilità di portarlo a termine con un supervisore interessato, e di creare un rapporto umano con l'insegnante. Nell'accademia statale sei un numero, una faccia sostituibile.
Penso che per quanto riguarda l'insegnamento artistico gli istituti privati possano fornire una proposta migliore, in quanto chi dirige il sistema ha più libertà di iniziativa per quanto riguarda corsi, scelta materie e programmi.
Non esiste nel nostro ambito una prerogativa politica, come ad esempio accade in ambito universitario, dove privato significa cattolico...
In accademia ho avuto la possibilità di sviluppare la mia ricerca, non certo per un sistema organizzativo che permettesse questo, quanto per il fatto che qui ho incontrato insegnanti in gamba predisposti nel tentativo di creare qualcosa di nuovo, che hanno avuto la volontà e sono stati messi nella condizione di dedicarmi gran parte del loro tempo e della loro attenzione. Il mio tempo in accademia è stato fruttuoso perché ho avuto occasione di incontrare persone interessate ed appassionate.
Del resto i termosifoni non funzionano, gli orari cambiano di settimana in settimana e i programmi variano a seconda della disponibilità di insegnanti o meno... certo, questo può frantumare i coglioni di tanto in tanto, ma è secondario rispetto al materiale umano.
L'accademia, o almeno la mia accademia, non fornisce particolari prospettive lavorative. Certo, esiste un potenziale, che sta nella quasi completa libertà d'azione di chi dirige, ma sta in chi frequenta crearsi le proprie condizioni, determinare e costruire il proprio percorso in prospettiva. Nessuno ti spiana la strada a priori.
So di istituti di design privati dove le tasse di iscrizione e mensilità varie raggiungono somme esorbitanti, ed in cui indipendentemente da quello che è stato il tuo lavoro, il posto lavorativo sembra assicurato...ma non è questo il caso. Il post laurea è un salto nel vuoto, e non è una questione di pessimismo, quanto di lucidità.

Una domanda sintetica (che non presuppone necessariamente una risposta stringata): che progetti hai in corso attualmente? E per il futuro prossimo immediato?

La risposta può essere altrettanto sintetica, data la scarsa capacità di agire in prospettiva...

Esistono due affermazioni, che sovente mi tornano alla memoria, e che sono tratte da due film differenti. Una mi ritorna da "il Maratoneta", dove un ex capo nazista tornato alla ribalta per recuperare una certa quantità di diamanti, prima di torturare Dustin Hoffmann, che nel film è uno studente di storia, dice " se li goda questi anni da studente, sono gli ultimi tempi in cui qualcuno si aspetta qualcosa da lei.."; mentre l'altra frase è tratta da "Denti", di Salvatores, dove uno sfigurato Sergio Rubini si domanda, " quand'è che si smette di essere figli, e si diventa padri..".
È un periodo particolare questo. La completa libertà di azione alle volte conduce ad uno stato di semi-paralisi, in cui ci si intestardisce rispetto al quesito "che cosa ha realmente senso fare" o quando va peggio "che cazzo di senso ha questo fare"... Il mio progetto immediato consiste nel tentare di mettermi nella condizione di capire in che modo gestire la mia realtà. Tutti noi possediamo un potenziale, ed ora più che mai, ho la necessità di capire in che modo gestire questo potenziale, in che direzione rivolgere le mie energie, o meglio ancora, sto tentando di capire quale sia il modo migliore di agire, sulla base dei presupposti in cui credo.

Per concludere, ho notato, tra i vari passaggi che hanno portato a completare questa intervista, che hai uno strano modo di andare a capo con le frasi (il testo è stato da me poi riformattato). A volte dopo i punti fermi. Altre volte dopo i punti e virgola. Quale respiro hanno le parole?

Penso che la forma di scrittura migliore sia la forma poetica. L'ho sempre trovata agevole ed incredibilmente diretta. Anche il testo teatrale, con le sue suddivisioni, gli incisi, è una forma di scrittura fortemente comunicativa. Anche le istruzioni per l'uso. Tendo per questo ad utilizzare molto i vuoti, perché a mio parere sono uno strumento ulteriore di comprensione, hanno un valore comunicativo estremo. Poi per quanto mi riguarda ritengo di essere tutt'altro che diretta, il mio modo di scrivere riflette il mio modo di pensare secondo un certo ordine, in una certa forma. La sintassi, è uno strumento incredibile. Gli spazi posti tra una frase e l'altra, aiutano chi legge ad entrare in relazione al mio modo di giungere a certi concetti. Ogni frase così come strutturata allude ad una certa modalità di visualizzare e stabilire la forma degli eventi. La trama sintattica è la base su cui costruire il rapporto nel dialogo.
A meno che non sia molto in confidenza con la persona con cui mi trovo a discutere, non mi riesce spesso facile affrontare certi argomenti.

Parlare di sé ad esempio, come accennavo all'inizio, è un'impresa, come parlare del proprio lavoro... La forma scritta è per me di grande aiuto in questi casi. Soffro di afasia molesta, e fatico a comprendere il senso di certi interventi o interviste lampo in cui in pratica ti si chiede di argomentare sui massimi sistemi. Sono una pessima oratrice, fuori dai circoli di amici più stretti e fedeli (dove invece sparo eloqui inutili a ruota libera...). Gli spazi vuoti sono necessari come il tempo. Il modo di disporli, all'interno del testo scritto denota una certa modalità di concepire gli eventi. Sarebbe stato bello se anche in questa stesura fossero stati mantenuti, ma non è mia competenza ;)

(A margine)

Ehm... ehm... hmmmm...nota dell'intervistatore... punti di sospensione facendo finta di nulla... altri punti di sospensione... rifacciamo l'ultima risposta, in stile....

Penso che la forma di scrittura migliore sia la forma poetica.
L'ho sempre trovata agevole ed incredibilmente diretta.
Anche il testo teatrale, con le sue suddivisioni, gli incisi, è una forma di scrittura fortemente comunicativa.
Anche le istruzioni per l'uso.
Tendo per questo ad utilizzare molto i vuoti, perché a mio parere sono uno strumento ulteriore di comprensione,
hanno un valore comunicativo estremo.
Poi per quanto mi riguarda ritengo di essere tutt'altro che diretta, il mio modo di scrivere riflette il mio modo di pensare secondo un certo ordine, in una certa forma.
La sintassi, è uno strumento incredibile.
Gli spazi posti tra una frase e l'altra, aiutano chi legge ad entrare in relazione al mio modo di giungere a certi concetti.
Ogni frase così come strutturata allude ad una certa modalità di visualizzare e stabilire la forma degli eventi.
La trama sintattica è la base su cui costruire il rapporto nel dialogo.
A meno che non sia molto in confidenza con la persona con cui mi trovo a discutere, non mi riesce spesso facile affrontare certi argomenti.
Parlare di sé ad esempio, come accennavo all'inizio, è un'impresa, come parlare del proprio lavoro..
La forma scritta è per me di grande aiuto in questi casi.
Soffro di afasia molesta, e fatico a comprendere il senso di certi interventi o interviste lampo in cui in pratica ti si chiede di argomentare sui massimi sistemi.
Sono una pessima oratrice, fuori dai circoli di amici più stretti e fedeli (dove invece sparo eloqui inutili a ruota libera..)
Gli spazi vuoti sono necessari come il tempo.
Il modo di disporli, all'interno del testo scritto denota una certa modalità di concepire gli eventi.