INTERVISTA AD ADRIANO CASTELLI

(a cura di Boskizzi)

Boskizzi: Adriano, la prima domanda è sempre conoscitiva. Raccontaci un po' di te, delle tue esperienze, dei tuoi progetti, ...

Adriano: Domanda a cui è difficile rispondere in modo sintetico; diciamo che sono autodidatta, ho iniziato -come molti- per caso e non prestissimo, a 23-24 anni, ma già da piccolo avevo una inspiegabile forma di attrazione per la fotografia, non mi rendevo nemmeno conto che mi sarebbe piaciuto fare foto, ma era comunque bellissimo guardarle. Aprivo e guardavo gli album delle foto di genitori e nonni, poi degli amici, e ne rimanevo colpito ogni volta. Probabilmente non lo dicevo a nessuno.

Poi mi sono ritrovato a farle, le foto; ricordo tra il 1998 e il 2000 mesi interi dedicati a cercare di fotografare in modo decente la luce. Utilizzavo una Canon di mio padre. Tramonti, riflessi. Poi mi sono fissato su uno stesso luogo (una strada sterrata a San Giacomo Po, Mantova) e ho ripreso immagini di campi, alberi, strade, e uno stesso angolo prima e dopo l'alluvione del Po nel 2000. Alla fine dello stesso anno, da poco trasferito a Milano, ho cominciato a fotografare decine e decine di finestre della città per farne poi una composizione unica, una gigantesca finestra colorata.
Tra una partecipazione e l'altra a concorsi vari (Fnac, Canon, Kodak), ho iniziato a dedicarmi al bianco e nero; geometrie e ritratti soprattutto.

Qualche anno fa ho cominciato a documentarmi (qualcuno direbbe studiare); tecniche, osservazione delle immagini di alcuni 'maestri', il passaggio dall'analogico al digitale (ho sempre usato delle Canon, ma non sono un fanatico del mezzo, non credo che oltre una certa soglia di disponibilità tecnologica faccia differenza, l'importante è, alla fine, avere nelle mani una foto che vuol dire qualcosa per chi la guarda e chi l'ha scattata).
Credo che leggere libri e riviste, studiare, siano cose fondamentali, ma rimango dell'idea che in nessun settore come nella fotografia valga la regola n°1: learning by doing.
Scattare, scattare e scattare. Studiare gli scatti, ripeterli, modificarli e migliorarli.
Il digitale aiuta in questo senso perché consente di limitare i costi, ma ricordo interi rullini con lo stesso soggetto fatti sviluppare a peso d'oro.

Nel 2005 ho avuto l'occasione di lavorare ad un workshop con Gianni Berengo Gardin al centro Forma (Centro Internazionale di Fotografia di Milano), e lì ho potuto esporre un'immagine frutto di quel lavoro. E' stato molto importante perché ho conosciuto uno dei maestri della fotografia in bianco e nero, a cui mi dedico sempre volentieri. Di Berengo Gardin mi ha stupito soprattutto la capacità di ricondurre l' attività di fotografo, dopo decenni di carriera, ad alcuni principi utili a tutti, sempre: passione, semplicità, infinita pazienza nel coltivare se stessi senza ansia di produrre qualcosa che deve andare bene. Ovviamente, tutto questo si accompagana ad una grande vocazione al sacrificio.

Per l'immediato futuro ho un progetto di cui non parlo per scaramanzia (si dice così no quando non si ha un'idea? eh eh)

D: Com'è fare fotografie nella campagna mantovana e nella metropoli milanese? Cambia il tuo essere fotografo?

R: Lo spunto e il desiderio di fare foto nascono nello stesso modo in campagna e in città.

Non c'è dubbio sul fatto che i contesti siano agli estremi per caratteristiche, ma in realtà non potrei dire che ci siano motivazioni diverse a spingermi in ambienti così diversi.

D'altra parte devo ammettere che dal punto di vista fotografico la campagna, i laghi e la nebbia sono stati la culla del mio interesse fotografico; il silenzio, e la totale assenza di persone per chilometri, portano l'ambiente di quelle zone (la nebbia d'inverno e a volte d'estate, i campi che si perdono all'orizzonte, le sfilate di alberi, gli argini, l'odore del fango) ad una unicità che non trovo altrove, e restituiscono una libertà di osservare che non puoi avere, ad esempio, su una metropolitana mentre fotografi una persona ad un metro da te in mezzo a una folla in silenzio. Spesso fare fotografie è questione di rumori, assenti o assordanti.

In questo senso nel fare foto ho bisogno anche di confusione, di sentirla attorno, come se fare quella foto in quel momento mi fornisse l'alibi per isolarmi.
Il 'rumore' fotografico più forte che ho sentito rimane comunque la voce del Po nel 2000, nelle ore in cui travolgeva tutto facendosi lago tra gli argini alle porte di Mantova.

D: Credi che la partecipazione del workshop al Forma abbia aiutato la tua maturazione fotografica?

R: Credo di sì, conoscere e provare a fare le cose fa sempre bene, soprattutto se capita l'occasione di incontrare un 'guru' del settore. Credo anche, comunque, che sia giusto farlo con curiosità e senza aspettative particolari, per il gusto di imparare e magari per scoprire qualche segreto da un maestro. Il workshop di Forma è servito anche per capire - almeno in parte - come ruota l'ingranaggio del mondo della fotografia, dalla fase creativa ai possibili sbocchi professionali. La cosa più divertente rimane il confronto con gli altri fotografi e il loro lavoro, ed è stato molto utile sentire i commenti di Berengo Gardin.

D: Credi che sia possibile fare rete anche nell'ambito della fotografia o reputi la faccenda strettamente personale? Mai utilizzato flickr o altri servizi simili?

R: Sono favorevole a tutto quello che consente di condividere meglio le conoscenze dei singoli, perciò scambiarsi foto, usare flickr (ho il mio account ma non sono un fanatico), avere la possibilità di incontrarsi, son tutte cose che possono solo aiutare a migliorare (e a divertirsi, per chi ha la passione). D'altra parte la fotografia è comunque un atto individuale: sei tu, con la tua macchina, e decidi cosa fare di quello scatto. Ti confronti con gli altri, guardi, osservi e studi, ma alla fine quando sei con la tua macchina fotografica sei solo. Credo che sia un altro aspetto peculiare dela fotografia; ci sono attività - penso alla musica, al teatro ad esempio - in cui 'condividere' è in qualche modo più facile anche mentre stai facendo le cose. La fotografia ha la particolarità di consentire aggregazione nel prima, quando si pensano fotografie e magari ci si organizza per farne insieme, e nel dopo, quando si può scambiare opinioni, punti di vista, consigli. Rimane il fatto che quando fai una foto sei solo, e credo sia un'occasione da non perdere.

D: Dalle tue parole è emerso che la fotografia è un "percorso": si studia, si apprende, si sperimenta. Come ti vedi tra 10 anni?

R: Questa è una domanda trabocchetto (eh eh): mi vedo con una macchina fotografica tra le mani, non so dire se lo farò per professione, di certo continuerò a coltivare idee e progetti, cercando gli spazi a disposizione per poter mostrare cosa è venuto fuori. Mi piacerebbe riuscire a mantenere l'idea che faccio fotografie perché mi rende felice, sarebbe già un ottimo risultato. Spero di poter dedicare sempre più tempo ai progetti che ho in mente.

D: Puoi darci qualche anticipazione?

R: Ho in mente un progetto che sarà incentrato su una raccolta di ritratti, ma è ancora tutto da strutturare.
Nel frattempo mi dedico ad alcuni 'esperimenti' fotografici; uno di questi è il photoblog thedailycatslife.blogspot.com, una raccolta di immagini un po' particolare: la realtà d'ogni giorno vista dalla mia gatta, in ogni foto ciò che lei vede nel momento in cui scatto.

D: Ci sono domande che faccio spesso. Una di queste riguarda il confronto analogico/digitale. Che corredo hai? Che sistema preferisci? Perché?

R: Ho 2 Canon, una 300 (analogica) e una 350d (digitale). Tendo ad utilizzare molto spesso uno zoom 18-55mm (ho anche un 28-90 e un 70-300), ha un'apertura inferiore a una focale fissa ma è molto versatile. Non ho preferenze sul sistema analogico o digitale, tendo a pensare che se la tecnologia propone strumenti per migliorare sia intelligente avvalersene. Per me il digitale è stato fondamentale perché consente di scattare quantità di foto praticamente illimitate sperimentando e quindi imparando. Certo, con in mano una digitale puoi anche scattare 100 foto molto brutte e non imparare nulla, ma se scatti con lo spirito di capire lo strumento, la luce, le aperture, migliorare nell'osservazione del soggetto... sperimentare la tecnica senza studiarla troppo sui libri, il digitale è un'ottima opportunità perché costa poco, e ormai puoi produrre immagini di altissima qualità.

D'altra parte ricordo il 'lavoro al buio' che si faceva con l'analogica, scattare senza sapere cossa stai producendo, aspettare la stampa delle immagini, e c'era forse necessità di maggior attenzione, più istitnto.

Rimango dell'idea che fissarsi sugli aspetti tecnici della produzione di una foto sia un po' un discorso fine a se stesso; quello che conta è ciò che vedi alla fine, per cui non riesco a capire fino in fondo i puristi di un sistema o dell'altro. Se l'immagine è una buona immagine, la tecnologia che l'ha prodotta secondo me è un aspetto secondario del 'fare una fotografia'. Il talento e la tecnica possono avere un ruolo molto più importante.

D: Grazie Adriano della tua disponibilità. Prima di chiudere, alcune cose: come si chiama la tua gatta? Chi ti piacerebbe che contattassi per la prossima intervista?

R: Per la prossima intervista dovresti intervistare - non sto scherzando - Max Boschini.
La gatta si chiama Luna.

D: Eh Eh, non ci ho mai pensato. Dopo l'autoscatto, l'autointervista. Chissà che non scopra qualcosa di nuovo anche su me stesso :-)