Intervista a Silvia Camporesi

(a cura di Boskizzi)

Le tue foto sono particolari: non rivendicano scopi documentaristici ma dicono comunque molto, magari anche grazie a ciò che non mostrano: non è un controsenso per una fotografia?

In effetti è un controsenso se si considera la fotografia come un fine e non come un mezzo. Per me la fotografia è un mezzo per raccontare storie come portrebbe essere la scrittura o qualsiasi altra forma di espressione. Parto sempre da una storia inventata, presa dai libri o dalla realtà e poi la traduco in immagine. Ciò che ne risulta è assolutamente slegato da fini documentaristici ma presuppone la costruzione di un set, il rispetto di un "copione", è pura finzione. La storia che origina l'immagine infine rimane quasi sempre invisibile o solo parzialemnte visibile, quindi sta allo spettatore interrogarsi sul suo significato e trovarne il senso.

Una bella sfida, la tua. Non pensi che potresti essere fraintesa, lasciando allo spettatore così ampia libertà?

Di solito le mie immagini sono esposte in gallerie o pubblicate su riviste d'arte, pertanto sono già filtrate dal luogo in cui compaiono: il luogo presuppone che lo spettatore cerchi di capire di cosa si sta parlando, per esempio leggendo il testo di presentazione o i titoli. In ogni caso non mi dispiace l'idea che il fruitore inventi una storia totalmente diversa da quella che ho immaginato io perchè questa attività presuppone comunque un pensiero, uno sforzo. Lo sforzo comprensivo fa in modo che l'immagine rimanga impressa nella memoria, che non scivoli via immediatamente.

La fotografia come fine e come mezzo. Immagino quindi che per te digitale o analogico non faccia differenza, importante è realizzare ciò che hai in testa, giusto? Senza voler conoscere tutti i tuoi segreti, puoi svelarmi a grandi linee come agisci per arrivare al risultato finale?

Analogico o digitale non fa differenza. Personalmente preferisco l'analogico perchè ritengo che la qualità resti imbattibile, ma a livello concettuale sono sullo stesso piano. Io lavoro in questo modo: parto da un'idea "immateriale", un testo, un sogno e per prima cosa cerco di trasformarla in immagine. Poi disegno la scena che ho in mente e in seguito costruisco il set per la realizzazione della foto. Lo scatto, come puoi capire, diventa il momento più semplice, proprio perchè la complessità è distribuita fra tutti i passaggi precedenti.in particolare, la costruzione della scena implica il trovare il soggetto giusto, abiti, accessori, location e tutto ciò che ho in mente per quell'immagine.

Sei autodidatta? Che percorso hai compiuto per arrivare la persona/artista che sei oggi?

Sono autodidatta se ti riferisci al fatto di aver frequentato scuole d'arte o fotografia. Ho studiato filosofia e durante gli anni dell'università ho cominciato ad usare la macchina fotografica. All'inizio mi sono dedicata alla parte pratica, la conoscenza del mezzo, ed ero molto lontana dall'avere pretese concettuali. Poi, in un secondo momento, ho cominciato a pensare che avrei voluto fare della macchina fotografica un mezzo per raccontare quello che avevo in mente. Sono certa che aver studiato filosofia mi abbia molto indirizzata su questa strada, insegnandomi a cercare sempre punti di vista laterali delle cose, evidenziando il loro aspetto più profondo e meno visibile. Parallelamente mi sono dedicata allo studio della storia dell'arte perchè credo sia fondamentale per un artista avere dei punti di riferimento. Ho scoperto che mi sento molto vicina alla pittura e se cerco ispirazione lo faccio sfogliando, per esempio, i cataloghi dei preraffaelliti e degli espressionisti, che sono in assoluto i miei artisti preferiti.